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sabato 13 dicembre 2008

Due anni in Matabeleland (1)

La convocazione mi giunse quando ormai non ci speravo più. Mesi prima, avevo fatto richiesta di trasferimento all’ufficio del personale dell’azienda dove lavoravo da oltre dieci anni. L’azienda si occupava e si occupa tutt’ora, della lavorazione dell’alluminio primario, e nel Matabeleland, c’era una succursale che operava in sinergia con la sede italiana. I cinque giorni di preavviso, li trascorsi nei preparativi, negli acquisti che non avrei potuto fare in quel paese.
L’aereo si alzò in volo passando sui tetti della periferia di Roma, diretto a sud. Attraversò il tratto di mare che separa la Sicilia dall’Africa in poco tempo, poi giù, lungo il continente nero, diretto al primo scalo: Il Cairo, in Egitto, poi a Khartoum nel Sudan, quindi a Kigali, e finalmente ad Harare nello Zimbabwe meta finale del mio viaggio. Dall’aeroporto della capitale, in treno sino a Kodoma, da dove con scassatisimi mezzi di trasporto si raggiungeva Umguza, una cittadina mista di grattacieli, case coloniali e baracche, simili ai tuguri delle favelas brasiliane.
Lo stabilimento, recintato e video sorvegliato, era moderno; lungo la strada, file di autotreni, alcuni a me di marca sconosciuta, attendevano il loro turno per caricare o scaricare. Il piazzale interno era ingombrato da pile di grossi cilindri di alluminio, lunghi circa sei o sette metri. dal diametro di venti o poco più centimetri, intorno ai quali gru e carrelli elevatori erano indaffarati al carico dei mezzi, altri invece, entravano carichi di minerale terroso e ne uscivano scarichi. In quel trambusto ognuno attendeva al compito assegnatogli senza bighellonare come spesso, si può assistere nei posti di lavoro in Italia. Mi ambientai in breve tempo grazie alle persone che già operavano in azienda, di cui uno della provincia di Cosenza, affabile e socievole, tanto che cominciammo a fare coppia fissa, nel dopolavoro e che mi fece da cicerone.
Dopo qualche settimana l’argomento sesso venne alla ribalta, poiché la mancanza di rapporti esigeva il dovuto tributo. Nuccio, diminutivo di Carmine, si adoperò a mettermi sul chi vive per quanto riguarda i rapporti con i residenti. Le malattie, i contagi la prostituzione, il contrabbando di ogni cosa possa avere un benché minimo valore.
Uscivamo qualche sera per il giro dei locali sicuri, magari alla ricerca di carne “ bianca” per il letto. Risultati: zero! Unica carne bianca era vestita di abiti talari (!), e nelle associazioni di volontariato il sesso, totalmente bandito, cazzo, tutti protesi a redimersi l’anima! Ci tenemmo lontani da questi circoli vischiosi come la pece.
Una sera nel solito locale, a parte le prostitute ragazzine, una bionda matura, spiccava là in mezzo, come neve sul cocuzzolo di una montagna. Nuccio l’agganciò agevolmente, il poco inglese a nostra disposizione, ci consentì di passare una serata diversa. Maggie si rivelò aperta e priva di inutili preconcetti. Laureata alla Liverpool University, in antropologia e biologia, aveva anch’ella difficoltà nel frequentare amicizie maschili, rifuggendo per questioni di gusti gli autoctoni. Aveva respinti rapporti con uomini neri, non cercava le dimensioni nel sesso, piuttosto se ne asteneva, e nel dirlo ci teneva a sottolineare che non ne faceva una questione razziale. Si era, ci disse, accontentata di alcuni rapporti lesbo con bianche, ma niente neri.
Si fece tardi, Maggie ci diresse presso il suo domicilio che però era a qualche chilometro distante, fuori città, direzione Kwekwe, la grossa Jeep viaggiava correndo lungo le strade polverose e deserte, a forte velocità. Maggie, nel locale si era scolata diversi drink, ma va da sé che era un’abitudinaria; Nuccio, la palpava, seduto al suo fianco e mi invitava a palparle le tette ancora sode, nonostante la matura età. Maggie guidava sospirando forte sotto l’effetto delle carezze di entrambi, quelle di Nino erano di certo più audaci, tanto che ormai con una mano, le pastrugnava la fica. Giungemmo alla meta in un paio di ore circa. La casa era in stile coloniale, tinteggiata di bianco, immersa nel buio della notte africana; la periferia di Lupane non era molto diversa da tante altre periferie del mondo, ma questa aveva in più il fatto che non viveva di luce propria, bensì del cielo rischiarato in lontananza dal ricco centro cittadino, ciò staccava la casa colonica dall’oscurità circostante.
Entrammo in casa preceduti da Maggie, salendo subito al piano superiore, lasciando le luci accese lungo il tragitto, la jeep, ferma di sbilenco davanti all’ingresso, la porta chiusa senza mandate. La scalinata in legno con balaustra dello stesso materiale era non in ottime condizioni. Il piano superiore constava diversi ambienti, la camera da letto, in fondo al corridoio, affacciava sul retro, prima di questa, un salone ed una camera da pranzo, un salotto con un balcone aperto, che dava sul lato anteriore del fabbricato. Ci buttammo sul letto lasciando gli abiti sparsi per la casa, Maggie si concedeva ad entrambi, e non perché in preda ai fumi dell’alcool, ma, e soprattutto, affamata di sesso con uomini bianchi, non importa se inglesi, americani o chissà quale nazionalità purché bianchi di pelle. Certo noi italiani non potevamo dirci bianchissimi, il sole africano ci bruciò abbronzandoci, ma cribbio eravamo pur sempre bianchi!
Maggie nuda, aperta stava sopra Nuccio, il cazzo ficcato nella fica bionda, mi offriva le natiche, io infoiato dalla lunga astinenza, le insalivai il culo e cauto le infilai dentro il pene . la stantuffai mentre ella sfogava su Nuccio la libidine della doppia penetrazione. Dopo pochi minuti, non potendo più mantenere l’orgasmo, data la lunga astinanza, mi rilasciai all’onda del piacere, e le sborrai nel culo. Appena si rilassò il cazzo, defluì dal buco, mi recai nel vicino bagno per lavarmi sotto l’acqua corrente, mentre Nuccio sbatacchiava il cazzo nella fica di Maggie, li sentivo annaspare, urlare, incitarsi a vicenda.
Il rumore colpì netto le mie orecchie, nonostante il baccano che gli impetuosi amanti producevano, percorsi il corridoio nudo col pene pendulo, che sbatacchiava tra una coscia e l’altra, fino al balcone del salotto, mi affacciai guardingo col cuore in gola, davanti alla jeep, una scassatissima auto messa di traverso con le portiere spalancate, illuminata dalla luce proveniente dalla porta d’ingresso evidentemente aperta. Mi chiedevo cosa stesse succedendo, mentre riordinai le idee, con mille e mille conclusioni nella testa, un colpo di arma da fuoco echeggiò nella casa. Le urla stanzianti di Maggie mi ferivano le orecchie. Il terrore mi bloccò, persi lucidità, mi sentivo un verme, nudo come un verme, senza difesa alcuna. Pochi attimi, per ristabilire il contatto con la realtà: ragiona, ragiona, pensa, cazzo pensa. Qui ci lasci le penne!
Maggie gridava, urlava parole che sembravano sconnesse, frammiste a singhiozzi, ma non aveva fatto parole della mia presenza.
Forse pensava che io fossi morto!
Di Nuccio non sentivo nulla, né un lamento, né movimenti di passi sulle assi del pavimento. Sicuramente era morto. Il rumore di ferraglie buttate in un sacco capii che stavano rapinando la casa, ma di Nuccio nemmeno un lamento.
Il colpo d’arma da fuoco doveva averlo ucciso.
Sbirciai facendo capolino nel corridoio. Una sagoma nera con un sacco in spalla ed una pistola in pugno, inforcava le scale; in un'altra stanza Maggie ed un altro individuo discutevano in afrikaans ed urlavano in modo concitato senza che potessi capire una virgola del battibecco. Mi ritrassi, non mi aveva scorto. Passi pesanti giù per le scale, poi all’improvviso un tonfo sordo ed un altro colpo d’arma da fuoco. Grida urla e richiami in dialetto africano, in contemporanea con le urla di Maggie.
Mi riaffacciai nel corridoio; lontano le ombre di due figure proiettate dalla luce della camera nel corridoio, mi fecero capire che potevo guadagnare le scale. Giù per le scale, sul ballatoio con uno scalino rotto, un nero riverso con un sacco e l’arma ancora nella mano in una pozza di sangue. Lo scavalcai, raggiunsi il pian terreno, cercai qualcosa da mettere in dosso. Nulla, intanto erano scesi Maggie e l’altro uomo, mi nascosi dietro un pesante tendaggio, di fronte a me alla parete, un grosso scudo ed una lancia matabele appesi in bella mostra. Due metri giudicai fino alla parete, due metri e potevo impugnare un’arma, un’arma mai usata e senza nessuna esperienza di lotta o contrasto corpo a corpo. Non avevo scelta, feci un salto e allungando le mani presi l’arma tornando dietro la tenda. Il tipo con la sinistra teneva Maggie con un braccio contorto dietro la schiena, la trascinava visitando il piano terreno aveva però nella mano destra una pistola, una vecchia Mauser ingombrante ma efficace. Maggie si attardò una frazione di secondo nella camera, protetta dalla parete, il tipo aveva la pistola abbassata sul fianco. Ero sicuro, partii con la lancia in resta, scelsi di non lanciare l’arma, non avevo alcuna certezza del risultato, la lama della lancia spinta con tutta la mia forza, penetrò tra la scapola e la colonna vertebrale, scansò una costola e si ficcò nella carne per intera, il tipo si paralizzò vibrando e vomitando sangue. Cadde in ginocchio e poi giù bocconi sul pavimento.
Avevo ucciso un uomo! Ero un assassino! Maggie liberatasi dalla presa, vomitava a sua volta il whisky ed i reflui dello stomaco. Con uno straccio avvolsi un machete preso dalla parete, e con quello troncai di netto il legno della lancia che portava le mie impronte digitali. Spezzai la lama del machete in un incastro. Afferrai Maggie ed il resto delle armi con le mie impronte, il sacco sul ballatoio e la trascinai verso la jeep. Lasciai la casa con tre cadaveri, dopo aver dato fuoco ad una tenda. Il fuoco si espanse rapidamente, dalla jeep in lontananza, scorgevo la vecchia casa colonica che ormai un rogo la divorava per intero. Spinsi la jeep con Maggie di fianco nuda come nudo ero io, a tutta velocità intimandomi di riflettere in seguito; percorrevamo la savana fendendo con i fari il buio pesto, Maggie diede segni di recupero, cominciò a scambiare qualche frase, poi si mise a dormire abbassando lo schienale. La luminosità dell’aurora, in lontananza mostrava la distesa della savana e più tardi intravidi sulla sinistra una macchia netta ergersi sulla piatta distesa erbosa. Doveva essere un bosco, diressi l’auto, in quella direzione, confidando nella copertura degli alberi che mi avrebbero nascosto da probabili ricognizioni aeree. Qualche ora più tardi ci inoltravamo nel fitto della boscaglia fino quasi alle rive di un fiumiciattolo tranquillo. Fermai il motore dell’auto, chiusi bene le portiere con il blocco delle sicure, mi concessi poche ore di sonno. Il movimento di Maggie, mi svegliò. Mancava poco alle dieci, gli animali selvatici si erano abbeverati tutti: prede e predatori. Attendemmo ancora un poco di tempo prima di azzardarci ad uscire fuori dall’auto. Maggie osservava intorno dal predellino della jeep, io con una delle due taniche della macchina, (l’altra era mezza piena di benzina), scesi sulla riva del fiume. L’acqua corrente si era schiarita, ma nulla ci assicurava che fosse potabile. Ci serviva per lavarci, poi avremmo pensato per bere. Dietro, nel vano dell’auto, v’erano un paio di bottiglie di acqua minerale ed un pacco di biscotti secchi. Recuperammo un ampio straccio residuo di vecchie lenzuola, e tagliato in due ne derivammo una seppur succinta copertura intorno ai fianchi per entrambi. Ci lavammo, lavammo via il sangue schizzato addosso a me ed a Maggie, mentre colpivo il tipo nel corridoio; riempii di nuovo la tanica per circa venti litri, la fissai sul tettuccio della jeep, sopra il portabagagli in metallo. La lunga esposizione al sole africano l’avrebbe portata alla temperatura di certo superiore ai cinquanta gradi centigradi, ciò poteva potabilizzare l’acqua, ma sulle caratteristiche organolettiche non v’era garanzia alcuna. Più tardi avremmo consumato qualche galletta della scorta, poi facemmo il punto della situazione.
-Cosa faremo adesso ? -
Chiese Maggie, forbendosi la bocca come se avesse consumato chissà quale pietanza.
- Non possiamo tornare indietro, cara, questo è un paese di neri, e qua gli “extra” siamo noi bianchi. Nella tua ex dimora ci sono due cadaveri neri ed uno bianco nudo per di più, che mancherà all’appello dei miei colleghi di lavoro! Non sarà facile far ingoiare la verità alle autorità, che saranno più propensi a pensare che una nottata di sesso con i due negroni sia finita a puttane e che un colpo di improvvisa gelosia abbia spinto l’assassino ad agire, e questo aimè potrei essere io stesso ad essere incolpato!
- Ma tu hai dato fuoco alla casa, non credo sia rimasto nulla in quell’inferno che hai generato, neanche le ossa saranno visibili domattina.
Annuii e aggiunsi che forse ci avrebbero considerati morti tutti in quel terribile rogo, restava però il mistero della jeep, ma di quelle se ne rubano a bizzeffe in Africa.
Il sole africano ardeva il paesaggio tutto d’intorno e, la tanica esposta sul tettuccio della jeep, sobbolliva quasi al tatto con la mano, avevo voluto sincerarmi. Nascosti all’ombra dei mopani, sonnecchiavamo a turno, mezzi nudi, nell’auto per non farci sorprendere dalle fiere.
Avremmo viaggiato di notte, al fresco, costeggiando il fiume per non restare senza acqua.
Quella sera sfilando dei ferretti dall’ombrello trovato nel cofano della jeep, misi insieme una specie di rudimentale arco, usando un ramo flessibile e dritto piegato ad arco usando un pezzo di filo di acceleratore chissà come finito nel baule. Lo provai ed il risultato non fu entusiasmante, ci dovevo lavorare sopra e trovare un ramo più elastico. Era però un’ancora psicologica di salvezza: possedevamo un’arma! Il sonno ristoratore e la stanchezza ebbero il sopravvento. CONTINUA

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