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venerdì 12 dicembre 2008

Gli occhi dolci di Adele, maestrina pensionata.

Era di luglio, in quella cittadina ridente che affaccia sul tirreno del sud. Io e due miei aiutanti, spostati dal cantiere di lavoro, in quell’intervento a casa della zia di un capo della ditta, per impiantare la caldaia a gas e relative tubature per il riscaldamento. Giunti al penultimo piano, ci accolse una signora anziana, di aspetto gradevole: la padrona di casa gentile e luminosa, in quel caldo mattino di luglio. Indossava una vestaglia lunga fino alla caviglie, perché alle ore sette del mattino, nessuna riceve abbigliata diversamente. Aveva i capelli a mezza spalla, quasi canuti con quelle striature argento brillante, raccolti in una crocchia, mezza sciancata dietro la nuca, che le conferiva un aria dimessa e di calore familiare. Invademmo l’ampio appartamento con le più varie attrezzature da lavoro. Un addetto trasportava col furgoncino scoperto le materie prime utili per eseguire le opere necessarie; mentre l’altro, un giovanotto poco più che sedicenne, le portava al piano, fin dentro l’appartamento. Il lavoro procedeva spedito, e con la sicurezza che dà l’esperienza maturata nel settore. I giorni si susseguirono e le attenzioni che l’anziana donna aveva per noi, per me non erano passate inosservate. Le frequenti interruzioni per il caffè preso magari da soli, sul divano, e le costanti cambiate di abito che ella operava, durante la giornata, previo passaggio sotto la doccia. Era quasi ossessionata per l’igiene e la pulizia. Era stata una maestra di scuola elementare sino alla raggiunta età pensionistica; il consorte l’aveva lasciata prematuramente anni addietro, e l’appartamento era un continuo inno alla celebrazione del ricordo dei bei tempi felici., trascorsi insieme. Nel salone, tra i vari dipinti ad olio di pregevole fattura, ma di sconosciuti autori, troneggiava un grande disegno a matita , di fattura eccelsa, un nudo che ritraeva una donna dell’età di non più di quaranta anni, sensualissimo, in posa non ginecologica, ma davvero attraente agli occhi di un uomo. Mi pescò che lo ammiravo fisso, in estasi adorativa; il suo tocco leggero, sopra la mia spalla mi distrasse e probabilmente mi salvò dall’essere colpito dalla sindrome di Stendhall. Ero giovane allora, continuò con una vena di malinconia nella voce tenera, ma ferma, la stessa di chi per anni ha formato giovani alla vita. Si, ero giovane allora e questo è l’omaggio di un artista a conclusione di un rapporto intensissimo e bruciante di passione, disse stringendosi le braccia conserte in un abbraccio ideale con lo sconosciuto artista. Mi girai e la fissai negli occhi, di un colore indefinibile, tra il verde ametista e l’azzurro chiarissimo, con sfumature fulve. Cos’ero davanti a lei, tutto ricoperto di polvere e schizzi di calcina? Un rude; braccia buone per la fatica fisica, vuoto nella testa. Lessi nei suoi bellissimi occhi una lama di luce sottile, proveniente dai meandri più recessi dell’anima. Ad un palmo dal naso, percepivo l’odore della sua pelle, nonostante fossi coperto del sudore della fatica. Era lì, allungando le mani potevo prenderla, non avrebbe opposto resistenza. L’avrei baciata teneramente, se non fosse intervenuto il ragazzo a rassettare, che il giorno di lavoro era terminato. Un suo sospiro mesto, collimò con la mia stessa delusione per quell’istante infranto. Ci salutammo prolungando la stretta di mano in modo inverosimile . all’indomani non avevo che occhi per lei. La seguii ogni qualvolta si cambiava d’abito. Abiti leggeri, tunicati, sovente con una lunga fila di bottoni a chiusura sul davanti. Chiusura che tante volte in occasione dello sporgersi in avanti, la stoffa si apriva tra un bottone e l’altro. Io mi godevo la visione del suo corpo quando potevo. In cucina si abbassò repentinamente, nel raccogliere delle mollette per capelli: ebbi modo di guardare bene sotto la veste di lino leggero, le mutandine nere di pizzo traforato e civettuole, lo spacco del culo veniva impreziosito da quell’indumento intimo. Le cosce erano all’attaccatura del culo appena gonfie per la tensione dei muscoli. L’erezione violentissima e prepotente mi provocava un dolore lancinante lungo il pene, all’attaccatura delle palle, anch’esse irrigidite nel sacco scrotale. Persi lucidità imbufalito dalla voglia di fottere, mi misi in mostra, col paccone gonfio: aspettai che si rialzasse, e girasse su se stessa per coglierne la reazione. Impiegò qualche istante prima di focalizzare la patta deformata dei miei pantaloni, dove la cappella del cazzo premeva svettando a mò di cima di un monte. Gli occhi le si fermarono, la bocca le si dischiuse, filtrando l’aria tra i denti. Allungai le mani sulle sue tette, le accarezzai, erano due sacchetti dove in fondo riposavano due palle deformi sormontate dai capezzoli di notevole dimensione e dal turgore inaspettato. La mia mano destra mollò la presa e scivolando lungo il suo fianco sotto l’ascella, raggiunse il culo, denso e sodo, l’attirai contro il mio cazzo, che si sistemò ad hoc nel dolce vuoto del suo inguine. La mia bocca si spalancò poggiando sulla sua, rorida di umori, saettavo la lingua fino ad intrecciarsi con la sua. Temevo fin’allora di essere respinto da quella patita della pulizia, io che a metà giornata avevo addosso almeno un dito di polvere in frammista al sudore. Venne docile a soffregarsi contro il mio cazzo duro di pietra. Ero follemente infervorato ed affamato di eros perverso. Eros che mia moglie, pure brava a fare sesso, non poteva comunque darmi. Il ragazzo stava giù in portineria a bighellonare, e comunque avrebbe dovuto bussare prima di entrare. Farlo adesso era sciupare la prima volta con una nuova femmina. Ci arrancammo famelici e sussurrandoci nelle orecchie, stavamo decidendo se andare nella sua camera oppure nell’ampio salone sul tappeto, davanti al pianoforte a coda. Il trillo del campanello all’ingresso risolse per noi, e ci impose di ricomporci in modo veloce. Una delle attenzioni che posi nel farlo fu quella di spolverare l’abito di Adele, che recava seco vistose tracce di chiara polvere. La porta si aprì lasciando entrare una giovane donna, di statura poco più bassa di Adele, ma che le somigliava tantissimo. Era la figlia, alla quale Adele badava la bambina, ma avendo i lavori in casa, per questo periodo non lo poteva fare. Donna scialba, giudicai, altezzosa ed alquanto scostante. Truccatissima, pur somigliandole, non ne aveva avuto le leggerezza dei tratti somatici della madre. Si intrattenne poco più di dieci minuti, o giù di li, si avviò all’uscio senza né salutare, né rivolgendo uno straccio di parola. A mezzogiorno ci accingemmo come consuetudine, a consumare la colazione; un panino con le più svariate preparazioni di salumeria. Mi posi fuori, sul terrazzino con le spalle poggiate alla ringhiera in ferro, ed il viso rivolto all’interno della cucina , dove Adele seduta al tavolo di fronte a me, con fare sbarazzino, accavallava le gambe in modo vistoso e plateale. Il tutto a mio esclusivo uso e consumo. Il ragazzo si era accomodato intorno alla tavola, ma con la visuale coperta dalla tavola stessa. Divorai il panino e la pesca dalla pelle leggermente impeluriata , il restante tempo dell’intervallo lo trascorremmo sorseggiando caffè e chiacchierando del più e del meno. Nella mia testa mordevo il freno, non vedevo l’ora che finisse il lavoro. Alle sedici e trenta il ragazzo sistemò le attrezzature, rassettò per quanto possibile , quindi lui e l’altro si avviarono al deposito per lasciarvi il camioncino. Io mi attardai, e assicuratomi che fossero andati via, Adele mi suggerì di fare una doccia. Entrai nella cabina nudo protetto dalle ante in plexiglass semitrasparente, per accorgermi solo al momento che mancava il doccia-shampoo, glie ne chiesi un po’ e lei ne approfittò per entrare nella cabina: mi offrii a lei tutto nudo, grondante di acqua, giù per le natiche ed il pene appena ricurvo in evidente stato di pre- erezione , mi porse il flacone con un gesto palesemente goffo, tanto da farlo cadere, costringendomi a girarmi e chinarmi per raccoglierlo. Sentii le sue mani sulle chiappe , anche più sotto, fino ai coglioni, un dito esplorò con delicatezza il buco del culo, solo un passaggio. Il mio cazzo ormai svettava tronfio e appena ricurvo all’insù col frenulo che tendeva in modo spasmodico l’astuccio che riveste il cazzo a riposo. Mi girai mostrandole il cazzo duro e teso. Adele con un sol gesto sciolse le bretelline e l’abito di cotone rotolò su se stesso ai suoi piedi, lasciandola nuda. La tirai dentro e la spinsi faccia a muro, col doccino al minimo: puntai deciso al buco del suo culo. Il cazzo bagnato premeva aprendosi un varco nel muscolo anale. Adele grugniva ed era percorsa tutta da fremiti e sospirava assorbendo i colpi di ariete che le infliggevo, sospinto dalla passione perversa. Entrai con notevole difficoltà , fino in fondo dentro il suo culo. Ella attraverso la pressione che esercitava con le dita della mano sul mio braccio, mi trasferì tutto il dolore e la goduria perversa che sentiva. Il mio cazzo pulsava affondato nello stretto ano, era quasi indolenzito, ebbi chiara la certezza che perdevo sensibilità già alla punta del cazzo. Poi chiaramente avvertii la pressione che l’anello dello sfintere stava esercitando alla base del cazzo, comprimendo i vasi sanguigni esterni del pene, che pompando intrappolava sangue nel corpo spugnoso, facendolo gonfiare in modo spropositato. Raggiungere l’orgasmo in modo più veloce possibile era il segreto che poteva evitare l’assurda tragedia di esporci al pubblico ludibrio. Aprii mentalmente l’enorme album fotografico stampato nella mia memoria, alla ricerca di immagini femminili che potessero favorire l’eiaculazione senza eccessivo movimento del pene che ormai non poteva muoversi più. Adele tremava scossa dai brividi di terrore, dalla paura della pubblica vergogna; scuoteva la testa di lato strusciandola lungo le piastrelle bagnate. La strinsi con dolcezza, cercando di infonderle un barlume di sicurezza. Era chiaro che piangeva. La sequenza di immagini accarezzata dalla mia psiche, diede il risultato sperato, il seme defluì a fiotti dolorosi per me, potendo cominciare la agognata fase di “refrattarietà”; cercai di abbassare il ritmo del respiro, normalizzandolo, era fondamentale non sfiorare col pensiero nessuna cosa o argomento che riguardasse il sesso. Le parlai con dolcezza calmandola, la invitai a respirare piano e rilassarsi. Restammo così legati per alcune ore .La stanchezza si faceva sentire fin quando il pene rilassato defluì da solo liberandoci dal legame costrittorio. Il cazzo floscio macchiato di rosso che divenne rosato quando fu lavata via dall’acqua corrente. Ci insaponammo e lavammo con cura; ispezionai il suo culo e con un sospiro di sollievo non rilevai nessuna lacerazione , probabilmente teneva già qualche ragade anale, che s’era messo a sanguinare. Ci adagiammo sul divano tenendoci abbracciati, ancora nudi; fuori il buio rischiarato dalle luci della città, ci disse che si era fatto molto tardi. Con suo sommo rammarico mi vestii per tornare a casa . nel salutarci mi disse che avrebbe voluto parlarmi di una cosa molto delicata e che richiedeva tempo, ma soprattutto tatto. Ci salutammo con la promessa di rivederci quanto prima, al di fuori dell’attività lavorativa.

Continua……. ilgobbetto.

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